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martedì 30 luglio 2013

Facebook, arriva il tasto ‘Non mi piace’...

Ma potrebbe non piacerci

Facebook, arriva il tasto ‘Non mi piace'. Ma potrebbe non piacerci
Il social network vuole sapere perché gli utenti nascondono certi contenuti. Per migliorare la profilazione (e la pubblicità)
Ce ne accorgiamo ogni qual volta un amico pubblica sul suo profilo Facebook una notizia raccapricciante, o semplicemente inopportuna: non esiste un modo per esprimere il nostro disappunto. O perlomeno per esprimerlo in modo conciso, senza fare commenti. Ci vorrebbe un tasto Non mi piace, così giusto per chiarire come la pensiamo senza troppi arzigogoli.
A dire il vero, Mark Zuckerberg starebbe pensando da tempo alla possibilità di arricchire la propria creatura con un tasto Dislike. Anzi, per qualcuno è solo questione di giorni: presto, ciascuno di noi potrà puntare il pollice all'ingiù dinnanzi a qualsiasi contenuto indesiderato.
Pensandoci bene nulla che ci cambi la vita e nemmeno la giornata. Ma per Facebook il discorso è diverso. Per il social network più affollato del mondo la possibilità di capire qual è lo stato d'animo dei suoi utenti ha tutto un altro valore.
E se finora l'interesse si è concentrato perlopiù sui sentimenti positivi degli utenti - "Le azioni tendono a concentrarsi sulle interazioni sociali positive”, aveva dichiarato qualche tempo fa Bob Baldwin uno degli ingegneri di punta della società californiana - oggi a Menlo Park c'è chi crede che a dettagliare i profili degli iscritti in tutti i loro aspetti, positivi e negativi che siano, c'è solo da guadagnarci.

In fondo una bella fetta del mondo social dispone già di strumenti analoghi: YouTube, ad esempio, permette di puntare il pollice in entrambi i versi, Reddit prevede il downvote di un articolo e Pandora dà modo ai suoi utenti di rifiutare un suggerimento musicale qualora non sia gradito.

Lo stesso Facebook, a ben guardare, dispone al suo interno di strumenti sviluppati per raccogliere il “sentimento negativo” degli utenti verso questo o quel contenuto, si pensi ad esempio all'azione che permette di nascondere post ritenuti offensivi o alla possibilità di eliminare alla radice certi annunci pubblicitari che appaiono sulla colonna di destra.

Dunque l'innesto di un tasto Non mi piace non farebbe altro che ampliare questa conoscenza, consentendo allo staff di Facebook di capire qualcosa di più sui nostri gusti e sulle nostre preferenze, come chiarisce un alto dirigente della società intervistato dalla ABC: “Stiamo progettando di raffinare questi strumenti affinché gli utenti possano comunicarci con precisione quali sono i motivi per cui nascondono quel particolare contenuto”.

Insomma, a differenza del tasto Mi Piace, il "Dislike button" (o ciò che verrà) sarà qualcosa che servirà a Facebook - e non ai nostri amici – per capire perché non vogliamo che certi post si ripresentino sulla nostra bacheca. E regolare di conseguenza la pubblicità.

Vien da chiedersi se, prima opoi, a qualcuno non venga voglia di carpire pure la nostra indifferenza verso certi contenuti sociali. Io, per esempio, sono fra quelli che vorrebbero fra le opzioni un bel tasto E chi se ne frega.

Di Roberto Catania (Panorama.it)


mercoledì 24 luglio 2013

Sigarette elettroniche, crollo dopo il boom

"Colpa delle lobby del tabacco"

Sembrava la rivoluzione del secolo: basta catrame, fumo e posaceneri. Tutti in giro con quell'elegante «penna» hi tech, attacco Usb e vapore acqueo. In Italia non si fumava, si «svappava». Per giunta ovunque: ristoranti, cinema, autobus, scuole. La vendetta del fumatore all'ostracismo salutista. I negozi di sigarette elettroniche spuntavano come funghi. Tabaccai e monopoli tremavano di fronte alle stime dell'Anafe, l'associazione nazionale: previsioni di fatturato intorno ai 350 milioni di euro per il 2013. Poi qualcosa è cambiato

A Torino, capitale morale del fumo elettronico, i negozi hanno cominciato a chiudere. Il franchising ha schiacciato gli indipendenti. Gli ex fumatori sono tornati tali. I dati della Camera di Commercio la dicono lunga. La categoria «articoli da regalo e per fumatori» nel 2012 aveva avuto un boom: +71,9%. «Pressoché tutti negozi di sigarette elettroniche» dicono, considerando l'inamovibilità del settore negli anni precedenti. Nel 2013, dati aggiornati al 30 giugno, c'è stato un calo del 2,4%.  

A livello nazionale, anche l'Anafe (che rappresenta l'80% dei rivenditori) conferma: i negozi affiliati alla fine del 2011 erano 500, nel 2012 sono triplicati e la previsione, per il 2013, era di arrivare a 2500. In realtà ad aprile c'è stato uno stop. Anzi, un tracollo. Le quattro grandi catene in franchising denunciavano da gennaio ad aprile 370 nuovi negozi con 200 richieste di nuove aperture. Da maggio a giugno hanno chiuso 123 punti vendita e le richieste sono scese a 2, il 99% in meno. I sostenitori del fumo digitale individuano un colpevole: la campagna delle lobby del tabacco. In parte può essere, ma in parte sono i contraccolpi della regolamentazione di un settore prima completamente senza regole. 
All'inizio sono arrivati i primi studi sanitari: la sigaretta elettronica non aiuta a smettere di fumare, addirittura è nociva. Piantare dei paletti per ridimensionare quell'idea che la e-cig fosse la panacea di tutti i mali ha le sue conseguenze. E il settore le ha subite tutte. 
 
Poi sono arrivati i sequestri per violazione delle regole sulle etichette. Sequestri accolti con applausi dall'Anafe, desiderosa di vedere il settore ripulito dai colleghi-rivali meno seri. Ma l'immagine ne ha risentito, ovvio. Anche il mercato ha fatto la sua parte. In un settore dove nemmeno i commercialisti sapevano dove iscrivere i propri clienti («è commercio di alimentari, articoli per fumatori o prodotti medicali?» chiedeva lumi ai colleghi un disperato professionista in Rete), l'offerta è stata superiore alla domanda. Naturale arrivasse la selezione naturale. I più forti resistono, è la regola. 
 
Infine la tegola più pesante: l'idea dello Stato di assimilare le sigarette elettroniche alle sigarette analogiche. Stesse accise, stesse regole, stessi divieti per i luoghi pubblici e sullo sfondo l'ombra dei Monopoli. Di più: è arrivata la supertassazione al 58,5% dell'Iva. E su tutti i componenti della sigaretta: dal serbatoio al vaporizzatori, passando per i liquidi e i cavi di ricarica. Come se, per vendere una calcolatrice, si tassassero anche le pile. E qui, gli applausi, si sono trasformati in rabbia.  
 
Ieri centinaia di venditori si sono riuniti sotto Montecitorio per protestare contro l'emendamento che intendeva anticipare la tassa al 1° settembre. In commissione Bilancio l'emendamento è stato bocciato, ma i venditori non mollano. «Così si uccide un settore che era in crescita - dice il presidente dell'Anafe Massimiliano Mancini - Se la super tassa restasse chiuderebbe il 75-80% dei negozi, con 3000 persone a casa. Per lo Stato significherebbe anche mancato introito da Iva, Ires, Irap». Il fumo elettronico rischia davvero di svaporare. Per sempre. 

LaStampa.it



mercoledì 17 luglio 2013

PayPal e l'uomo da 92 biliardi di dollari

Un errore tecnico sulla piattaforma di pagamento ha portato ad un saldo astronomico sul conto di un 56enne negli Stati Uniti. Per un istante è stato l'uomo più ricco del mondo
 
Per un istante, il 56enne cittadino statunitense Chris Reynolds è stato l’uomo più facoltoso sulla Terra. In possesso di un’autentica fortuna, un totale di oltre 92 biliardi di dollari sul suo conto PayPal . Per avere un’idea, un biliardo di dollari è una cifra centinaia di volte superiore a quella del Prodotto Interno Lordo dell’intero pianeta, lontana anni luce dal patrimonio da 73 miliardi di dollari di Carlos Slim, l’uomo più ricco al mondo. 

Ovviamente, la piattaforma dei micropagamenti ha rimediato velocemente all’ errore tecnico , evitando di rilasciare commenti sul motivo dell’accaduto. Residente in Pennsylvania, Reynolds non ha certo nascosto il suo stupore dopo aver sfruttato il suo account per acquistare e rivendere pezzi di ricambio per automobili su eBay . Con la temporanea fortuna, l’uomo avrebbe estinto il debito nazionale e comprato la squadra di baseball Phillies “se avessi strappato un prezzo vantaggioso”.
 
Punto-Informatico.it
 
 

giovedì 11 luglio 2013

2020 Internet sarà in ogni cosa

Nel 2020 ci saranno 50 miliardi di oggetti connessi alla Rete. E Cisco scommette: prepariamoci a una rivoluzione culturale, oltre che tecnologica, che porterà opportunità per gli innovatori e le imprese. Anche nel nostro Paese

Che Internet sia una risorsa centrale del Pianeta è ormai fuori di dubbio. Tanto che ci viene quasi difficile pensare a quando non eravamo connessi.
Rimaniamo persino sorpresi nello scoprire che esiste ancora un buon 68% della popolazione terrestre che non è ancora raggiunta dalla Rete. Ma è solo questione di tempo. Entro 4 anni quasi la metà della popolazione mondiale sarà su Internet, con una crescita del traffico IP tre volte maggiore rispetto al 2012.
Ma il vero boom riguarderà le cose più che le persone. Ad oggi – spiega una ricerca Cisco – solo l’1% degli oggetti che possono essere messi in Rete è effettivamente connesso. Ma il numero è destinato ad aumentare drasticamente nei prossimi anni: 15 miliardi di dispositivi connessi entro il 2015, addirittura 50 miliardi nel 2020.

In men che non si dica arriveremo a quello che Cisco definisce l’Internet of Everything, Internet in ogni cosa. Una trasformazione radicale del modo di concepire e vivere la Rete, pari a quelle che nell’epoca recente ci ha portato dall’email all’e-commerce fino ai social network. Nell’era dell’ l’Internet of Everything, ad esempio, non dovremo più cercare un parcheggio. Sarà la Rete a informarci su dove e come parcheggiare la nostra vettura, sfruttando una rete di sensori sul campo collegata ad un'architettura centrale. 

UN’OPPORTUNITà DA COGLIERE
Automazione industriale, energia, retail, trasporti, sanità, città intelligenti: sono questi i settori che prima degli altri conosceranno l’Internettizzazione delle proprie strutture, ma la lista delle applicazioni è praticamente senza fine. Si può dire che ovunque ci sia un dato da gestire, allora lì ci sarà una connessione. 
Cosa comporterà tutto questo in termini di innovazione e business? Le cifre parlano di un giro d'affari (reale e potenziale) da svariati zeri: 1, 4 trilioni di dollari nell’anno corrente, 14,4 trilioni entro il 2020. Ma che ha bisogno di un grande sforzo infrastrutturale da parte di tutti gli attori della filiera affinché tutte le opportunità vengano sfruttate. E qui casca l’asino, almeno in quei Paesi – vedi l’Italia – dove la crisi economica ha ridotto enormemente la possibilità di effettuare investimenti, sia nel pubblico che nel privato.

Il futuro rimane però luminoso spiega Flavio Bonomi, vice president e responsabile dello svilluppo IoE di Cisco: "Ciò che sta succedendo stimola innovazioni, nuovi richieste che poi avranno impatto sul modo in cui facciamo IT". Chiarisce Agostino Santoni, Amministratore Delegato di Cisco Italia “E’ un passaggio chiave in ottica di innovazione e competitività. Come in una rete l’informazione decisiva da gestire può arrivare in un dato momento dall’ultimo e più piccolo dei sensori, così una idea decisiva può arrivare da qualsiasi cittadino e dal più giovane degli impiegati: perdere l’opportunità lavorarci a causa di una struttura inadeguata al dialogo è un rischio che non ci si può permettere”.

VERSO UNA RETE DISTRIBUITA
In questo senso, gli sforzi di Cisco Italia per la trasformazione tecnologica ma anche culturale del paese si stanno orientando verso due obiettivi ben precisi: da un lato sostenere la creazione delle infrastrutture di Rete a banda ultralarga puntando su imprese, persone, start up che hanno risorse, prodotti, progetti che possono rispondere a esigenze di mercato ancora irrisolte; dall’altro sviluppare soluzioni e sistemi per migliorare la Rete. Per renderla cioè più sicura, agile, sensibile al contesto, una Rete capace di trasferire all’utente le corrette policy di accesso ad informazioni e applicazioni e che sia quasi “consapevole di se stessa, che sappia cioè auto-configurarsi, auto-ottimizzarsi, auto-ripararsi, auto-proteggersi e gestire le domande massive di dinamicità, automazione e gestibilità dei nuovi modelli di utilizzo (vedi il cloud); capace infine di garantire scalabilità di calcolo, di storage, di networking; capace di integrare programmabilità, applicazioni aperte, funzioni di analisi in grado di trasformare dati grezzi in informazioni pronte all’uso.

"Stiamo rendendo le reti programmabili", spiega Paolo Campoli CTO Head of SP Architectures di Cisco Italia, aggiungendo: "vogliamo separare l'intelligenza dal trasporto, astrarre la complessità della rete".

L’utente della strada percepirà questa rivoluzione copernicana? Dal punto di vista tecnico probabilmente no, visto che buona parte della trasformazioni avverrà dietro le quinte. Ma ne avvertirà sicuramente i benefici, nella vita di tutti i giorni.

Roberto Catania - Panorama.it

 

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